Coronavirus Covid-19.PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI PAOLO II - LA GIOVINEZZAL'OPERAIO DELLA SOLVAYNegli anni 1940-44 lavora come operaio nel Complesso «Solvay», un noto stabilimento di prodotti chimici, a Borek Falecki (sobborgo di Cracovia). Inizialmente era stato spedito nella cava di pietra della «Solvay» che si trovava tra Borek e Zakrzówek. Insieme a lui erano finiti là anche Juliusz Kydrynski e Wojciech Zukrowski, suoi colleghi di facoltà.«Si lavorava all'aperto - ricorda Kydrynski - ma sul fondo di una valle di creta e questo rendeva la cosa ancora sopportabile, anche perché, durante l'inverno, potevamo fare un salto, di tanto in tanto, in una baracca riscaldata da una stufa di ferro. In quella baracca potevamo rimanere non più di quindici minuti al giorno, il tempo per la colazione. Naturalmente la ditta non offriva la colazione: ognuno portava con sé, da casa, un pezzo di pane scuro con la marmellata e del caffè conservato in una borraccia di latta che veniva riscaldata su quella stufa». Il capo-cantiere della cava era un polacco che manifestava benevolenza verso quegli studenti. Ma il lavoro era ugualmente pesante; infatti ogni operaio doveva, in una giornata, riempire di pietre un vagone di media grandezza. «È chiaro che non essendo abituati a questo tipo di lavoro - scrive ancora Kydrynski - inizialmente non riuscivamo a realizzare neanche la metà di quel che ci ordinavano, perciò fummo adibiti ai lavori ausiliari che, del resto, non erano più leggeri degli altri. Si trattava in genere di asportare con la carriola il terriccio di sotto la pietra cavata, per dare una ripulita sul luogo, oppure di pompare l'acqua che scendeva sotto la falda. Naturalmente dovevamo usare arnesi manuali ed arcaici. Fu allora che ci rendemmo conto di quanto grande doveva essere la stanchezza degli antichi marinai, costretti a pompare acqua per ore intere, dai velieri in pericolo. Dopo qualche mese però, fummo trasferiti a spaccare la pietra. Ma dopo l'allenamento alla vanga ed alla pompa, il martello da roccia non ci spaventava più; dovevamo solo sapere come maneggiarlo ed in breve tempo lo imparammo. Innanzi tutto bisognava stabilire dove si trovava la fronte del macigno, poi lo si spaccava in modo che le schegge non ferissero né gli occhi né il volto; tutto qua. La pietra doveva essere spaccata in pezzi minutissimi con un minimo di colpi. Infine dovevamo caricare questi frantumi calcarei sui carrelli». L'AIUTANTE DEL VECCHIO LABUSCon il tempo Karol era diventato l'aiutante dell'artificiere Labus. «Tutti conoscevano la figura gobbuta del 'nonno' - scrive Kydrynski - che zoppicava sui pendii scoscesi con la cassetta piena dei candelotti oblunghi di materiale esplosivo e con la stoppa con la quale sistemava quelle cariche nelle apposite buche scavate nella roccia con il trapano pneumatico. Il 'nonno' era una parte inseparabile del paesaggio della cava. Karol era stato incaricato, per decisione della direzione, di aiutare l'artificiere Labus; doveva sostituire il 'capo' nella sistemazione delle cariche esplosive, mentre Labus vigilava sull'esattezza di questo lavoro. Poi, personalmente, accendeva la miccia. Tutti e due si allontanavano di corsa per mettersi al sicuro e tutta la 'ciurma' degli operai si nascondeva sul fondo della vallata, negli appositi ripari. Uno scoppio fortissimo strappava dalla parete le pietre che fragorosamente rotolavano giù; e di nuovo, quando la polvere si diradava, si tornava a udire il ritmico martellare dei colpi». In uno dei racconti di Zukrowski che prende spunto da quella esperienza in cava, c'è un certo Labus «con il naso schiacciato come una fragola», e anche se il personaggio principale del racconto non assomiglia per niente a Wojtyla, le sue parole sono comunque significative: «Di tanto in tanto Labus mi diceva di controllare i conti. Egli stava chino sopra di me, con gli occhiali e con la faccia cosparsa di una barbucola grigia; masticava un pezzo di pane scuro e mormorava: - Stia attento; qui tutto deve filare liscio, sino al grammo, perché Auschwitz è vicina». Se fosse mancato, infatti, anche un solo grammo di dinamite, la deportazione ad Auschwitz sarebbe stata sicura; i Tedeschi vegliavano, del resto senza successo, affinché questo materiale non passasse alla Resistenza polacca. Questo nuovo incarico presso il vecchio Labus naturalmente aveva suscitato un po' d'invidia, perché costituiva un avanzamento in graduatoria e poi perché permetteva di passare più tempo nella baracca. Karol, «lo studentino», «il pretino», come lo chiamavano con simpatia gli operai, si lamentava spesso però per il dolore alle mani; il lavoro non era leggero.PAPA GIOVANNI PAOLO II LA GIOVINEZZA Parte Inizio I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII |
|